Cinema

L'età barbarica

L'età barbarica

Oppresso da una realtà che non lo aggrada, schiacciato dagli obblighi famigliari e lavorativi, da affetti oramai affievoliti o non corrisposti, dall'inanità del tempo che passa, Jean Marc conduce la sua vita alternando il grigiore del reale a fughe improvvise della fantasia, dove i suoi fantasmi prendono le forme sinuose di donne pronte ad ascoltarlo, a coccolarlo, ad amarlo. Fantasmi, che scompaiono quando la realtà bussa alla porta e si presenta sotto forma di una moglie tutta presa dalla sua carriera, delle figlie totalmente immerse in un mondo fatto di musica di i-pod e videogame (ben più tragiche fughe dal reale), di un lavoro grigio da funzionario del Quebec. Con L'età barbarica (L'age des tenebres 2007) Arcand mette in scena le paure, le ansie e le frustrazioni della contemporaneità, barbarica perchè stretta tra i legacci della monotonia, della monocromia della vita. Lui rifugge il suo tempo con la fantasia. Altri giocando a fare i medievali, periodo storico simbolico in cui senso e vita erano saldi tra loro, duro della monoliticità della pietra, delle battaglie tra cavalieri, delle dame da conquistare dopo duri tornei a colpi di lancia. Entrambe risposte ad una necessità di fuga dal reale. Lucida e al vetriolo l'analisi di Arcand. Ad un registro più comico iniziale gradualmente si sostituisce uno più drammatico. Al seguito dell'abbandono da parte della moglie, Jean Marc (Marc Lebreche) comincia a ripercorrere la propria vita e decide di imprmergli una svolta. Abbandonare il lucido terreno asettico del modernissimo Quebeq, delle sue leggi, delle sue ipocrisie e le sue nevrosi e allontanarsi per condurre una vita diversa, dove ricercare qualcosa, un senso forse. Un altro ritmo, altri colori impressionano la pellicola. Uno stretto legame tra tempo e senso si palesa nell'ultima parte del film, dove alla vita frenetica e ai ritmi martellanti delle giornate passate in ufficio si sostituiscono i ritmi lenti di una vita condotta lontano dalla città, in una dimensione altra. La lentezza di un coltello che taglia una mela, il crepitio dolce che ne consegue, la possibilità di fermarsi. E sarà la bellezza cezanniana della natura morta su cui scorreranno i titoli di coda a sancire questo nuovo corso, possibile, auspicabile.